Uomini, barche e riti della marineria siciliana descritti dalla ricercatrice Federica Valenti

Questa che proponiamo è la sintesi della tesi di laurea condotta dalla giovane ricercatrice marsalese Federica Valenti che ha presentato in occasione del III Convegno nazionale di archeologia, storia, etnologia navale che si è tenuto presso il museo della marineria di Cesenatico lo scorso mese di aprile.
In merito alla valorizzazione storica, archeologica e etnografica, ha sviluppato i temi connessi al patrimonio materiale e immateriale legato alle realtà marinare siciliane. Dalle decorazioni tradizionali, e non solo, si evince la persistenza di elementi arcaici entrati a far parte di una “lingua del mare” elaborata nel corso dei secoli e che continua a vivere ancora oggi.
Le scelte scaramantiche dei marinai, che stabiliscono – da sempre –  un rapporto particolare con la barca, considerata quasi una creatura vivente, hanno consentito la diffusione di usi e costumi, testimoniati dal largo impiego di giochi cromatici atti a personalizzare lo scafo con una gamma di colori che va dal rosso, al blu, al verde, al bianco, al nero, entrati a far parte di quella “lingua del mare” elaborata nel corso dei secoli. Un’arte antica, quella della coloritura dello scafo che completava l’apparato costruttivo della barca, mentre la protezione divina veniva richiamata fin dalla messa in opera dell’ossatura portante, attraverso un sistema di incroci che richiamava la croce di Gesù. Le decorazioni delle barche siciliane, dunque rappresentano il mezzo per esorcizzare la paura facendo ricorso a disegni-amuleti, che concorrono ad aumentare la solidità e la governabilità della barca. Il ricco repertorio di segni impiegati per decorare le imbarcazioni rimanda a significati simbolici rimasti straordinariamente inalterati nel tempo.

Ad ogni tipo di imbarcazione, a seconda della destinazione d’uso, erano riservati particolari corredi figurativi benauguranti. Le tavole a prua e a poppa accoglievano simbologie variegate, le fiancate invece rimanevano colorate a fasce per distinguere semplicemente la parte che restava emersa da quella immersa in mare. I pittori di mestiere non appartenevano alla società marinara, ma erano contattati all’occorrenza per la loro maestria nelle raffigurazioni tipiche della cultura popolare siciliana. Spesso dunque gli ornamenti erano gli stessi che si vedevano negli strumentari dei lavori rurali e artigianali, con l’eccezione di alcuni soggetti specifici come, per esempio, la sirena, la ballerina o ancora il cavallo marino.
Il cavallo disegnato sulle barche tradizionali siciliane risulta però particolare, assumendo le sembianze di un ibrido cavallo/gambero, dove si distingue una criniera che fa da cresta ad un collo che spesso si imbottiglia in un corpo di gambero con zampe filiformi, e la coda a scaglie raggomitolata in due spire. Raffigurazioni simili si ritrovano anche sui carretti siciliani di varia epoca, un simbolo che è allo stesso tempo terrestre e marino, drago-cavallo-gambero insieme. 
La predilezione per il decoro con cavallo marino potrebbe trovare spiegazione nei poteri magici che la medicina popolare attribuiva al cavalluccio marino (hippocampus), considerato dai pescatori anche un potente amuleto contro diversi malefici. Giuseppe Pitrè, uno fra i più importanti raccoglitori e studiosi di tradizioni popolari siciliane, descrisse la pratica popolare che ne decretava l’assunzione ad amuleto, scrivendo che : “pescato in un giorno di venerdì, a mezzanotte in punto,il cavalluccio marino si avvolge con tre nastri, uno rosso, uno bianco, uno giallo... e possibilmente nello stesso giorno o in un altro venerdì si va a battezzare. Il battesimo si fa nella chiesa albanese dei Greci a Palermo, con la massima segretezza, senza che lo sappia o se ne accorga anima viva”. I tratti figurativi stigmatizzati del cavalluccio si sono mantenuti nel tempo senza cedere ad interpretazioni figurative più realistiche, a differenza di altri soggetti, anch’essi di antica tradizione.
Si pensi alla sirena raffigurata con le sembianze per metà femminili e per metà di pesce, che via via nel tempo subisce alterazioni e aggiunte iconografiche, come nel caso della sirena in atto di suonare la tromba. Altri simboli molto comuni erano il delfino, il cuore,  la stella, che con il passare del tempo hanno assunto un rappresentazione più realistica. Solamente l’occhio, che nel siracusano viene denominato “occhio fenicio”, rimane quasi del tutto invariato nel tempo.
Quale organo della percezione visiva, l’occhio è il simbolo universale della conoscenza inteso nel senso più largo del termine. Nel Mediterraneo si trova infatti una documentazione che ne attesta l’impiego, già a partire dall’epoca arcaica, in ogni contesto sia nell’iconografia di ambito fenicio-punico quanto in quella greca e in quella romana, occhi sulle navi da trasporto e in quelle da guerra. 
La forma dell’occhio assume aspetti diversi a seconda delle regioni e dei popoli che lo raffigurano a volte con sembianze antropomorfe, altre come un disco colorato o in forma di triangolo o di stella, o ancora più semplicemente rappresentato da un punto, bianco o più frequentemente rosso, per aumentarne la potenza apotropaica. In questo modo l’imbarcazione era resa, secondo le credenze popolari, magicamente viva e in grado di evitare i pericoli. È da notare inoltre come nella cultura marinara sia lecita – se così si può dire – l’associazione di simbologie profane e religiose, che si evidenzia un po’ ovunque, ma in particolare sulle barche siciliane, dove ad esempio l’occhio della barca convive con cavalli marini e sirene, immagini della Vergine e dei Santi.
Il colore e i simboli impiegati per abbellire lo scafo richiamavano dunque a tradizioni propiziatorie, sia che si facesse ricorso agli occhi, richiamandosi all’antichità pagana, sia che ci si appoggiasse all’intervento dei Santi o della Madonna rafforzando la barca con l’immagine che rimarcava  la profonda devozione dell’equipaggio nei loro confronti.
Lo stesso valore simbolico si attribuiva anche ad altri segni ricorrenti, come la mano stretta a pugno con il pollice tra l’indice e il medio ( detta “mano a fico” ), il corno e il ferro di cavallo, che rinviano all’idea di vigore, di forza e di potere vitale.
L’opera morta era decorata con lunghe fasce di colore intramezzate da ornati geometrici e floreali regolari ma anche da cherubini, rappresentazioni simmetriche che corrono lungo tutto il profilo dell’imbarcazione, realizzate con semplici linee a zig-zag in rosso. Figure ricorrenti erano cavalli neri e bianchi galoppanti, leoni, delfini, ed altre specie ittiche. Con la raggifurazione del delfino, ritenuto la reincarnazione di pescatori annegati, si credeva potessero essere evitati i danni che questo mammifero arrecava alle reti, affidandosi al principio di similia similibus – si curino i simili con i simili – convinti che la barca in qualche modo venisse riconosciuta come un loro simile. L’immagine di altri pesci invece si credeva potesse attirare le varie specie ittiche assicurando una buona battuta di pesca. La barca risulta dunque un prodotto finale concepito per mezzo di una grande abilità manuale contraddistinta da una forte religiosità, che trova le sue radici nell’antichità più remota, tradita da gesti identici perpetrati in millenni e carichi di sentimento. Ciascun oggetto d’arte, al di là delle sue qualità, racconta di chi lo ha creato, di chi lo ha voluto, dei modi in cui ci ha raggiunti per divenire nostro contemporaneo, parla delle storie che rappresenta, dei suoi spostamenti, delle vicende umane che in sua presenza si sono consumate – e si consumeranno – lungo i decenni e i secoli.
L. R. Federica Valenti