Fortuna Maris: quale futuro per il relitto della nave romana di Comacchio del I secolo a. C.?

Fortuna maris: che fine ha fatto? Si dovrebbe parlare di sfortuna per il relitto della nave romana di fine primo secolo a. C., scoperta nel 1980 nei pressi di Comacchio e del quale se ne sta perdendo la memoria. A trentaquattro anni dalla sua scoperta, rcuperato il suo prezioso carico, l’eccezionale relitto attende però ancora di conoscere il suo destino. È però di questi giorni la notizia che un progetto per il recupero, conservazione e restauro è stato presentato all’Amministrazione comunale di Comacchio da Giovanni Gallo del laboratorio Legni e Segni della Memoria di Salerno. Il costo previsto è 1,2  milioni di euro su tre anni circa: due per il trattamento, uno per il condizionamento finale e la musealizzazione. Ora c’è l’impegno per trovare la strada al finanziamento del progetto. Un ennesimo appello è stato lanciato al Ministro per i Beni Culturali e alla Soprintendenza di competenza, quella di Ferrara. Il comune ha rispolverato il progetto del “nuovo” museo, in cantiere dal lontano 1984 (bandita la gara sono stati già affidati i lavori), che prevede un nuovo allestimento dell’eccezionale carico del relitto attualmente esposto in altri locali.
L’assessore Alice Carli in piena sintonia con il sindaco e la giunta, sta implementando il discorso dei beni culturali in genere e del polo museale in particolare, notevole è, altresì, l’impegno costante della soprintendenza archeologica, di grande aiuto ai fini della esatta deontologia e della definizione dei progetti. Per i fondi si stanno cercando i parametri per eventuali finanziamenti europei, non si disdegna la possibilità di un intervento del ministero o di altri finanziamenti, non ultimo quello da parte dei privati. Il sogno potrebbe essere un altro “Colosseo” per un’impresa unica e colossale. Il progetto di restauro e musealizzazione è una sfida, si basa sulla certezza – così affermano quelli di Legni e Segni della memoria – “che sappiamo trattare il legno in tutte le condizioni”.
Lo scafo, dalle ragguardevoli dimensioni, lungo più di venti metri e largo cinque è, cosa rarissima, cucito. L’imbarcazione aveva un unico albero a vela quadrata, è costituita da tavole di olmo e quercia cucite tra loro con corde di fibra vegetale nella parte inferiore e assemblate ad incastro nella parte superiore. Per questa ragione si decise di non smontare il fasciame esterno, per motivi legate alla movimentazione furono smontate solo le ordinate e il fasciame esterno, quindi, la chiglia e il fasciame esterno è stato  conservato intero racchiuso in un unico guscio di vetroresina dove si è iniziato un trattamento con il PEG (glicol polietilenico), altresì, si è costruito un involucro esterno ai fini della coibentazione.
Madieri e staminali nella zona di poppa del relitto.
Il dispendio energetico in relazione al mantenimento di una temperatura di circa 70°C, per mantenere liquida la soluzione, è notevole. Però dopo qualche anno il trattamento con il PEG è stato abbandonato perché è risultato inapplicabile e evidenzia problemi nel tempo, come dimostrato con il Vasa, il celebrato galeone svedese, e da quel momento lo scafo di Comachio è mantenuto  soltanto in acqua. Le ordinate e il fasciame in parte sono state impregnate con il PEG, in parte sono immerse in vasche piene d’acqua. Lo stato della conservazione del legno della nave è stato controllato attraverso carotaggi periodici e sembra che l’acqua ne abbia bloccato discretamente il degrado. Quando e se si potrà mettere mano al relitto tutti i reperti già smontati saranno recuperati e trattati in laboratorio, sarà eliminato il Peg e i legni saranno ricondizionati e “rinaturalizzati”, per i legni racchiusi nel guscio si prevede la “riapertura" dell’involucro in vetroresina che sarà usata come supporto e vasca di trattamento, visto che non può essere smontato, di conseguenza non trasportabile.
Il metodo “Gallo” è stato messo a punto e sperimentato con successo su molti relitti manufatti, ne abbiamo già parlato con il relitto di Marausa e le navi di Olbia. L’elemento cardine del trattamento è l’essiccamento ottenuto con la disidratazione in camere ipobariche (sottovuoto), dove a 80 millibar di pressione l’acqua bolle a 40 gradi. Si elimina così tutta l’acqua senza collasso del legno. I reperti con un’alta percentuale di acqua sono impregnati con una soluzione di carboidrati complessi (sostanzialmente delle molecole che si usano nell’industria alimentare, affini a quelle stesse perse dal legno). L’ultima fase del trattamento è quello delle celle climatizzate per mantenere i legni a temperatura e umidità costanti, pronti per la musealizzazione. L’importanza di questo relitto è data soprattutto dal suo carico, il più completo mai trovato finora in Italia e ben conservato grazie all’ambiente anaerobico che lo ha protetto.
Sandali
Si tratta di una scoperta di elevato spessore scientifico e documentario, che ha consentito di datare la nave all’epoca augustea, verso la fine del I secolo a.C. Tutti gli oggetti, esposti in un primo momento con la mostra Fortuna Maris allestita nel 1990, sono stati successivamente spostati nel Museo della nave romana, all’interno di un vecchio complesso industriale usato a suo tempo a magazzini e alla marinatura delle anguille e del pesce di valle. In un adiacente padiglione è invece ricoverato lo scafo “ingusciato”.
La particolare situazione in cui la nave e il suo contenuto si sono conservati per duemila anni hanno reso necessari accurati e sofisticati interventi di restauro, nonché una serie di analisi chimiche, soprattutto per quanto concerne gli oggetti in fibre vegetali.
Sacca tipo marsupio
Il ricco catalogo della mostra raccoglie i contributi di diversi specialisti e propone materiali in alcuni casi di assoluta novità per quanto riguarda l’archeologia del legno, le analisi tecnologiche dei tessuti, delle corde e degli intrecci di fibra vegetale e delle resine, peci e bitumi. Un vero campionario di legni, quello utilizzato per gli elementi dello scafo e per gli oggetti, ciascuno per le sue caratteristiche: corniolo, frassino, leccio, noce, quercia, olmo, tiglio, pioppo, ontano, faggio, acero, bosso, faggio L’ampio catalogo fornisce per gli studiosi, ma non solo, un ampio resoconto di questi aspetti. Si è trattato di un recupero lungo e complesso, articolato in varie fasi, condotto da Fede Berti, direttrice del Museo nazionale di Ferrara nonché curatrice della mostra e del volume. Particolarmente approfondite le analisi del tipo di legname utilizzato per la costruzione delle varie parti dello scafo, le tecniche di taglio, la lavorazione e la rifinitura delle tavole c degli altri elementi strutturali.
Ariballos
Le tavole del guscio, tutte in olmo, i tipi di legno usati nel pagliolato sono di quercia e di noce. Le ordinate (madieri e staminali) sono ottenute da tronchetti di quercia per i tenoni  è stato impiegato il corniolo, così ogni singolo reperto di legno è stato classificato e studiato. Oltre alla grande ancora, del carico facevano parte trentadue tronchi di legno di bosso, considerato nell’antichità fra i legni di maggior pregio, era il legno usato per i lavori di ebanisteria, tornitura, per oggetti di ogni genere, centodue lingotti di piombo del peso complessivo di tre tonnellate, anfore, ceramiche comuni e raffinate. Ma anche gli oggetti usati a bordo, sia per il governo della nave che per vita dell’equipaggio, di enorme valore per la conoscenza delle consuetudini di vita marinara di quei tempi, in un ottimo stato di conservazione, dalle forme tramandate fino a noi senza sostanziali differenze. La grande ancora di ferro, gli utensili utilizzati per la movimentazione della nave, come i bozzelli e i passacavi in legno i mazzuoli usati per il calatafaggio, corde che legavano le componenti delle strutture dell’imbarcazione, una pialla, un’accetta, nonché una sassola di legno del tutto integra. Inoltre una serie di utensili da cucina, il calderone da fuoco, la graticola, il colino, i piatti e le casseruole in bronzo, i cesti, le sporte, le stuoie ad intrecci di fibra vegetale.
Coppa
Non mancano i vari capi di abbigliamento in cuoio, antichi di duemila anni eppure in alcuni casi di sbalorditiva attualità, come le custodie per indumenti, le borse a tracolla, le sacche tipo “marsupium” con chiusura a laccio passante, calzature, identificati cinque tipi diversi, tra cui un sandalo ad infradito, con la suola sagomata a profilo di un piede piccolo e snello, appartenuto ad un fanciullo o ad una donna. Era infatti frequente per imbarcazioni commerciali ospitare a bordo anche passeggeri.  L’elenco continua con una stadera, calamai e uno stilo per scrivere, oggetti per la cura della persona tipo il balsamario contenente unguenti e lo strigile per asportarli o per detergere dalla polvere e dal sudore, un cestino di ami per la pesca, dadi e pedine da gioco, un set di scatoline e “specilli” per medicazioni, un piccolo armamento di spada e pugnale, due cassette di legno per piccoli oggetti anche queste perfettamente conservate.
Pisside
Nei bolli impressi sui lingotti piombo compare il nome di Marco Vipsanio Agrippa, genero di Ottaviano Augusto e in Spagna tra il 19 e il 12 a. C.  Particolare, questo, che insieme ad una moneta ritrovata a bordo e ai bolli impressi sulle ceramiche fa datare con buona approssimazione il viaggio della nave di Comacchio. Recuperati anche, è il primo rinvenimento del genere, sei tempietti votivi in piombo destinati probabilmente al commercio. Sono riproduzioni in miniatura di templi romani in stile ionico completi di colonne, cella con finestrelle e porte apribili, frontoni con antefisse e acroteri a palmette; li correda all’esterno l’immagine di un genietto alato e all’interno quelle di Venere e Mercurio. Di grande interesse le lucerne, alcune con ornati in rilievo, tipo due pugili affrontati in lotta oppure un giovane in atto di allacciarsi un calzare e una fanciulla danzante.
Tempietto di piombo
Splendido è poi il vasellame ceramico da mensa in terra rossa sigillata riservato alla vendita, specialmente le coppe e i bicchieri. Più grossolana al confronto è la serie di ceramiche comuni di grosse dimensioni, adibite ad uso di cucina ma anche anfore da trasporto per olio, vino, frutta secca, olive e il “garum”, la salsa di pesce molto usata all’epoca. Le iscrizioni sulle anfore dimostrano che la nave trasportava un vino pregiato, proveniente dall’Egeo, dalle isole di Kos e Chios.
Stadera